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La rivista del Centro

Annali di Architettura 27/2015

Mario Piana
San Nicola da Tolentino fra trattato e cantiere
pp. 97‐106.

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Per tutto il XVI secolo l’attrito tra l’architetto edotto delle ragioni dell’operare e il pratico che agisce sine scientia serpeggia con percorsi per lo più sotterranei; talvolta però lo scontro emerge con grande evidenza, come nel caso veneziano di San Nicolò da Tolentino.
Appena dopo la posa della prima pietra della chiesa si innescò una dura polemica tra i Teatini e Vincenzo Scamozzi, sbocciata nella sua estromissione dal cantiere. I committenti lo incolparono di aver eseguito malamente le opere di fondazione, criticando in particolare il suo rifiuto di ricorrere al consueto uso della terra da savon, impiego più volte drasticamente condannato negli scritti dell’architetto (Nota sui Commentari, Bib. Vat., Cicognara, IV, 718; L’Idea, II, VIII, VII, p. 295).La tera da savon era un sottoprodotto della produzione del sapone, una delle principali industrie manifatturiere della città tra basso medioevo e prima età moderna: ceneri alcaline ottenute dalla combustione di arbusti (Salsola soda) mescolate con calce viva e acqua per intensificare la causticità del liquido così ottenuto, destinato alla miscelazione con olio di oliva. Per quanto si sa è solo in ambito lagunare che tale residuo, prodotto in grandi quantità e addizionato con altra calce spenta, è stato utilizzato nella formazione del tratto inferiore dei massi fondali. Le ragioni del suo impiego vanno ricercate nelle specifiche condizioni del sito lagunare, e individuate nella volontà di assecondare – fin dalle prime fasi di erezione – il progressivo assestamento della fabbrica. La terra da savon doveva presentarsi come una massa plastica, dove il carbonato di calcio prevaleva largamente sulle altre componenti, in buona parte sotto forma di cristalliti di neoformazione: un materiale sostanzialmente inerte, capace di sviluppare solo una debole presa, che doveva conservarsi alquanto duttile anche a fondazioni concluse. Lungi dal costituire una condizione sfavorevole, la plasticità della terra da savon consentiva al masso sotterraneo di assorbire parte degli assestamenti dei terreni indotti dal progressivo aumento di carico trasmesso dall’edificio in crescita, riducendo la formazione di quadri fessurativi nelle membrature di spiccato.
È con una tale visione costruttiva, tesa ad assecondare la deformabilità dell’edificio, che si scontrano le convinzioni di Vincenzo Scamozzi. Sicuro assertore del principio della rigidità nel costruire l’architetto rigetta in toto il pensiero che sottendeva a tale scelta, assumendo un atteggiamento dogmatico incapace di fare i conti con le condizioni imposte dalla singolare realtà del sito lagunare, con l’impossibilità di perseguire, come era buona norma in ogni altro ambito costruttivo, l’indeformabilità delle fabbriche.

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