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Carlo Scarpa nella fotografia
racconti di architetture (1950-2004)
Vicenza, palazzo Barbarano. 24 settembre 2004 - 9 gennaio 2005

 

L’occhio di Carlo Scarpa
di Guido Beltramini

Sin dal titolo Carlo Scarpa nella fotografia è chiaro che il protagonista di questo libro non è Carlo Scarpa, ma i ventisette fotografi che hanno descritto la sua opera: «a modo loro», come scrive Italo Zannier in apertura di questo volume. Dalle fotografie raccolte emerge la straordinaria fotogenia dell’opera scarpiana, e la molteplicità di sguardi che genera, tutti diversi e tutti leciti. Articolati in sequenza, essi sono in grado di raccontarci una loro storia autonoma, quella della fotografia di architettura italiana dell’ultimo mezzo secolo. Tuttavia, dalle testimonianze dei fotografi che hanno avuto contatti diretti con Scarpa e da quelle dei suoi collaboratori, emerge un atteggiamento problematico dell’architetto verso la descrizione fotografica del proprio lavoro. È sufficiente leggere le interviste qui pubblicate, o ricordare quanto testimoniato da Guido Pietropoli su come Scarpa, in occasione della preparazione della propria mostra personale al Royal Institut of British Architects di Londra del 1974, intervenisse sulle stampe di Paolo Monti tracciandovi sopra linee e diagonali, per isolare le parti delle immagini che meglio rispondevano al suo punto di vista[1].

Mi sembra utile quindi allineare a margine qualche considerazione sull’atteggiamento di Scarpa verso la fotografia, sulla base di due elementi: il volume Memoriae Causa (Verona 1977) dedicato alla Tomba Brion a San Vito di Altivole, curato personalmente da Scarpa un anno prima della morte, e una selezione di disegni autografi tratti dal ricchissimo corpus grafico del maestro veneto.

Memoriæ Causa è una plaquette impressa, nel maggio del 1977, in duecento esemplari fuori commercio dalla Stamperia Valdonega di Verona, una delle più raffinate tipografie italiane. È composto da dieci fogli ripiegati in due in formato 26x23 centimetri, con la planimetria generale della tomba ripiegata in quattro a raggiungere lo stesso formato. I fogli non sono legati, ma raccolti da una cartella cartonata, a sua volta inserita in un cofanetto. Il primo fascicolo è bianco e contiene il colophon dell’edizione, dove si legge fral’altro: «Questa edizione è stata curata da Carlo Scarpa per Onorina Brion» e una dedicatoria latina: «Monumenti in memoriam Iosephi Brion, ab Honorina uxore filiisque

facti, his chartis continentur imagines» (In queste carte sono raccolte le immagini del monumento in memoria di Giuseppe Brion, realizzato da sua moglie Onorina e dai figli). I successivi nove fascicoli sono identificati da una lettera dell’alfabeto, dalla A alla I, e contengono diciotto fotografie numerate, ognuna con propria didascalia esplicativa. L’ultimo foglio, identificato come «planimetria generale» e firmato «Bianca Albertini delineavit», mostra l’articolazione del complesso, con sovrapposti diciotto numeri che identificano l’elemento fotografato e rimandano alla fotografia corrispondente.

Nella plaquette non troviamo riproduzioni di disegni, o testi esplicativi, che non siano le didascalie delle immagini: a conclusione di un’opera tanto impegnativa, Scarpa affida esclusivamente alla fotografia la descrizione del proprio lavoro. Ciò rende l’edizione un banco di prova significativo per indagare il rapporto fra Scarpa e la fotografia. Innanzitutto Scarpa non coinvolge grandi fotografi nelle riprese del complesso, ma si affida all’obiettivo di un suo assistente, Guido Pietropoli, che a sua volta si appoggia a un altro giovane architetto, Enrico Renai. Nel volume manca il riferimento ai due autori, ma grazie ai loro archivi è stato possibile attribuire a Pietropoli le fotografie 2, 6, 8, 9, 11, e le altre a Renai. Alcune immagini di quest’ultimo sono già presenti nel catalogo della mostra di Londra del 1974, e precisamente quelle numerate 3, 12, 16, 17 [2]. Il confronto fra le due edizioni rivela un primo elemento significativo: Scarpa chiede alla Stamperia Valdonega di utilizzare una carta uso mano, e di contrastare molto le immagini, accentuando la profondità dei neri. In questo modo le immagini perdono di nitidezza, ma per contro si avvicinano all’effetto di un’acquaforte, esplicitamente ricercato da Scarpa, come ricorda ancora oggi suo figlio Tobia. Tipo di carta e opzioni di stampa sono quindi finalizzate alla ricerca di un effetto artistico, in linea con il carattere aulico dell’edizione, ma con l’ulteriore obiettivo di attenuare la specificità del mezzo fotografico, che è quella di registrare obiettivamente il reale: l’effetto è evidente nella prima fotografia (n. 1. Motivo simbolico del propileo visto accedendovi dal viale del vecchio cimitero) che restituisce i due cerchi d’ingresso, “bruciata” sino a far quasi scomparire il muro di fondo inquadrato fra i cerchi. Lo stesso procedimento è utilizzato nella stampa della fotografia del fianco della cappella, dove la vegetazione si addensa in ombre scure (n. 16. Particolare del tempietto con motivo a fianco dell’altare). Questa lettura trova riscontro nelle osservazioni di Zannier nel saggio di apertura, dove ricorda l’apprezzamento di Scarpa per una foto molto sgranata sino a sembrare, in quel caso, una litografia, o dove connette la predilezione di Scarpa per le foto di Leiss, anche al fatto che «non erano ipernitide, come molta fotografia professionale standard pretendeva, e non erano “viscide” per lucentezza, e a volte potevano persino alludere a un disegno a carboncino o pastello»[3].

La sequenza fotografica di Memoriae Causa lascia pochi spazi a suggestioni o allusioni. Affidata a collaboratori che hanno interiorizzato lo sguardo del maestro, essa è finalizzata a identificare i processi compositivi, fissare le relazioni fra gli elementi, fra le masse e gli spazi aperti. Una volta attenuata la loro oggettività, e amplificato il loro carattere grafico, le fotografie diventano di fatto ancillari all’architettura, una sorta di disegno fotografico, e in diversi casi Scarpa interviene sul formato dell’immagine per isolare l’elemento compositivo che più gli interessa, come nella fotografia n. 7 La prora del tempietto situato a quinconce, ridotta ad una striscia alta e sottile.

Questo percorso a ritroso, dall’immagine fotografica al disegno, va probabilmente collegato all’aspirazione scarpiana di non considerare mai definitivamente concluso il proprio lavoro. Alla perentorietà della ripresa fotografica, che sentenzia la fine dell’iter progettuale e realizzativo, l’architetto risponde con una manipolazione dell’immagine che equivale a un rinvio a un ulteriore grado di giudizio, dando l’illusione di poter continuare nell’elaborazione della forma, riconducendo il progetto nell’ambito della possibilità della sperimentazione. È inevitabile del resto che Scarpa, attentissimo ai valori percettivi dell’architettura, sia a disagio di fronte a un mezzo ritenuto facile e consuetudinario in grado da un lato di sanzionare la fine dell’iter creativo, dall’altro di entrare in conflitto con le sue personalissime concezioni di spazio e di luce. Andrebbe poi anche fatta una riflessione se un’architettura come quella di Scarpa sia effettivamente fotogenica nella sua concezione originaria – che è spaziale e chiede di essere percorsa – quanto lo è a livello di singolo episodio di dettaglio. Non a caso in Memoriæ Causa è allegata una planimetria con precisi rimandi alle fotografie, come indispensabile ausilio alla lettura.

Il complesso monumentale di Brion, del resto, e il Museo di Castelvecchio sono i soggetti che compaiono più di frequente fra le fotografie pubblicate in questo volume, ed è possibile approfondire il tema della specificità dello sguardo scarpiano affiancando tali soggetti ad alcune prove grafiche con cui l’architetto è giunto alla loro realizzazione, in particolare con quelle che mostrano schizzi prospettici. Gran parte del fascino che hanno su di noi i fogli di Carlo Scarpa, come è stato più volte sottolineato [4], è dato dal loro carattere sedimentario, la dimensione cronologica che accoglie le tappe della progressiva messa a fuoco dell’immagine del progetto. Si tratta di un processo che è insieme di stratificazione e di compressione, perché le informazioni si sedimentano sullo stesso foglio sovrapponendosi come le velature successive in un dipinto a olio, dando origine a un vero e proprio palinsesto. Spazio di approfondimento individuale, i disegni accolgono riferimenti ed evoluzione del progetto, e raramente fissano gli esiti a vantaggio di una lettura finale di sintesi per il committente. Il foglio, per Scarpa, è il luogo dove emerge progressivamente l’esito della ricerca della forma, e non si tratta tuttavia di una visualizzazione di una immagine già presente nella mente dell’architetto, ma piuttosto di una costruzione dell’immagine a posteriori. Lo sguardo di Scarpa è multiplo e simultaneo, analizza l’oggetto da più punti di vista, con salti di scala che consentono di passare dalla definizione dell’oggetto alla sua reazione nello spazio. In Scarpa la composizione sempre indagata in proiezione ortogonale attraverso pianta, prospetto e sezione, garantendogli il controllo della misura. A margine, tuttavia, emergono qua e là fulminei schizzi prospettici, come se l’occhio dell’architetto si staccasse per un attimo dal foglio e operasse una verifica dell’insieme. Questi piccoli e straordinari schizzi sono come fotografie istantanee, polaroid del viaggio interiore alla ricerca della forma, messa in scena delle idee progettuali misurate in pianta, prospetto e sezione. Si osservi ad esempio la prospettiva sul margine sinistro del foglio che raccoglie gli studi per il gruppo scultoreo della Crocefissione di Tomba, che verifica una variante nella disposizione delle statue e della qualità della luce proveniente da sinistra. Oppure le vedute dell’interno e dell’esterno del sacello di Castelvecchio, o gli studi per una variante nella copertura della cappella di Brion. Ma le prospettive presenti nei disegni di Scarpa non sono semplici “fotografie con

la matita”, ma piuttosto immagini della mente, e si sottraggono alle limitazioni fisiche e dimensionali dello spazio documentato dalla ripresa. In questo senso è interessante poter guardare, a margine delle fotografie, anche i disegni di Carlo Scarpa, per avere – accanto a tanti sguardi – anche il suo. E in effetti l’occhio di Scarpa c’è davvero, tracciato a matita sul margine destro di un foglio di studio per la collocazione definitiva della Crocefissione di Tomba.

Ringrazio Massimo Scolari per avere discusso con me i contenuti di queste pagine.

[1] M. Beltramini, Note all’apparato fotografico del catalogo, in G. Beltramini, K. Forster, P. Marini (a cura di), Carlo Scarpa. Mostre e musei (1944-1976). Case e paesaggi (1972-1978), Milano, Electa, 2000, p. 453.

[2] Carlo Scarpa architetto poeta, catalogo della mostra (Londra, Royal Institute of British Architects – Heinz Gallery, 27 febbraio – 12 aprile 1974), London 1974.

[3] Si veda il saggio di Italo Zannier in questo volume.

[4] A. Rudi, Note nell’allestimento e sui disegni, in L. Magagnato (a cura di), Carlo Scarpa a Castelvecchio, catalogo della mostra, Milano, Comunità, 1982, pp. 37-38; H. Damisch, Il disegno di Carlo Scarpa, in F. Dal Co, G. Mazzariol (a cura di), Carlo Scarpa. Opera completa, Milano, Electa, 1984, pp. 209-213; M.A. Crippa, Carlo Scarpa. Il pensiero, il disegno, i progetti, Milano, Jaca Book, 1984; Y. Futagawa, Carlo Scarpa. Selected Drawings, in «GA Documents», 21, Tokyo 1988, pp. 46-48; R. Murphy, Scarpa & Castelvecchio, Venezia, Arsenale, 1991, pp. 12-13, ma passim; S. Los, Carlo Scarpa, Köln, Taschen, 1996, pp. 43-49; M. Mazza, Catalogo dei disegni, in Id. (a cura di), Carlo Scarpa alla Querini Stampalia. Disegni inediti, Venezia, Il Cardo, 1996, pp. 49-141; G. Pietropoli, Il disegno nell’opera di Carlo Scarpa, in G. Beltramini, K. Forster, P. Marini (a cura di), Carlo Scarpa, cit., pp. 57-72; E. Gellner, F. Mancuso, Carlo Scarpa e Edoardo Gellner. La chiesa di Corte di Cadore, Milano, Electa, 2000, pp. 35-73, ma passim.

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