en

Carlo Scarpa nella fotografia
racconti di architetture (1950-2004)
Vicenza, palazzo Barbarano. 24 settembre 2004 - 9 gennaio 2005

 

Scene di luce
di Italo Zannier

Odio e amore, per la fotografia; che da sempre, ossia da quando è stata inventata, inesorabilmente indaga e rivela, con la sua sospetta, ambigua, ma accattivante e metaforica verità. Senza la fotografia, il Soggetto non esisterebbe; è la fotografia che lo evidenzia, l’icona lo protegge e promuove, innanzitutto per la sua selettiva gratificazione (non si fotografa tutto!) che, in bene e in male, propone amore o odio, nella sua iconografia referenziale dall’impossibile neutralità. Raffaello contava sul suo amato traduttore, il bolognese Raimondi, che oggi sarebbe nella schiera dei pubblicitari, dedito a trascrivere in immagini digitali l’opera originale anche se lontana e altrimenti irraggiungibile, ma filtrata e definita per proporne bellezza o rozzezza. Il Marcantonio di Raffaello, oggi, sarebbe un sublime fotografo-art director, anziché l’acquafortista che è stato, e a Londra scoprirebbero gli affreschi vaticani, in splendidi lucenti fotocolor, meritevoli di suggerire un viaggio in jet, ma con il Concord, per raggiungere gli Originali. Gli architetti amano e odiano la fotografia in un unicum psicologico; tutti gli architetti credo, anche se qualcuno celia e ci scherza sopra, ma gli architetti, come tutti noi d’altronde, hanno bisogno della fotografia come del pane e dell’acqua. Senza la fotografia la loro Opera non esiste, e il fotografo è simile a un angelo, attrezzato di pellicole e treppiedi, e si spera che infine sia benevolmente disponibile a mostrare “al meglio” quell’Opera, persino a migliorarne e, se necessario, a costruirne in immagine la qualità, che nella realtà fisica potrebbe non esserci. Ecco perché il fotografo è stato a volte definito un Mago. A qualche fotografo (ricordo Casali, umile ma eccelso trascrittore di architetture) poteva bastare un fondale bianco disteso su una parete dell’atelier, per costruire una scena d’interno, con l’aggiunta di qualche sedia, un tavolo, un soprammobile, una lampada un vaso di fiori..., e il “gioco” è fatto, per la rivista d’architettura e d’arredamento, e non soltanto per quelle della Moda. La fotografia d’architettura, come negli altri generi (l’informazione sociologica, politica sportiva, divistica ecc.), è irrimediabilmente pubblicitaria e, mi ripeto, lo è in bene e in male, secondo l’ideologia del momento e soprattutto gli umori dell’editore; non c’è quasi mai la possibilità di sottrarsi a questa condizione, che lega l’autore al produttore – al/a cliente/i –, mentre il fotografo si trova in mezzo, schiacciato e ricattato; se vuole sopravvivere è costretto a offrire una parvenza qualificante dell’Opera, pena il “licenziamento o l’emarginazione. L’Opera deve risultare eccezionale, anche oltre il possibile obiettivo, e basta un Chiaro scuro, un Punto di vista, un Dettaglio, per suggerirne persino una sublime qualità, che però in molti casi emerge innanzitutto o soltanto dalla ruffiana fotografia, ossia dalla sua specifica identità figurativa, per cui l’Opera è la Fotografia e non necessariamente il soggetto, che nell’immagine è muto, senza temperatura e profumo. Ma c’è l’Immagine, e questo basta. Quel simpaticamente beffardo intellettuale-fotografo che fu Paolo Monti, durante uno dei tanti amabili incontri competitivi di noi due fotografi di architetture, una volta mi disse: «ma vuoi che gli architetti siano masochisti, talmente masochisti da accettare le tue caricature in bianco-nero?», quando io invece – da impenitente neorealista –, rimuginavo le idee di un ipotetico fotografo-critico, ossia di un fotografo “che denuncia”, come avrei voluto passionalmente essere, trovando però consensi allora soltanto in Bruno Zevi, che comprendeva e magari ironizzava sulla mia ingenuità fotoamatoriale. Ma Zevi preferiva una trasgressione fotografica (eccesso di contrasto, convergenza delle linee verticali, un affronto alle regole della parallasse...), specialmente in sequenza, al perbenismo cimiteriale delle fotografie “stile Alinari”, che ci avevano fatto quasi odiare l’architettura, nei muffosi, grigiastri libri liceali di storia dell’arte dei Mottini, Salmi, Pittaluga ecc., di buona memoria per la mia generazione. Carlo Scarpa, forse più di altri – anche di Frank Lloyd Wright, che a sua volta fotografava, ma approvava soprattutto la documentarietà illusoria degli stereogrammi – “odiava” la fotografia, ne aveva probabilmente paura, forse proprio per la straordinaria fotogenia del suo lavoro, la cui materia sembrava impossibile da trasmettere sopra il piatto e viscido rettangolo fotosensibile. E poi, il “punto di vista” del fotografo è inesorabilmente condizionato dallo spazio reale, non si può mettere in relazione allo schizzo, alla prospettiva, all’annotazione mentale, che l’architetto sogna nel divenire del suo progetto; quindi il fotografo sembra un traditore, se usa un supergrandangolare, sveltendo la prospettiva, che sembra aberrante nella sua anamorfosi, perché il fotografo non può demolire la parete che ha alle spalle.

L’architettura della vita, non è un palcoscenico aperto al pubblico, ha un fotografo dinanzi. Ma, anche per Scarpa, il fotografo rappresentava comunque un personaggio di serie B, da accarezzare certamente, da apprezzare amabilmente se si trattava di un amico, ma che si vorrebbe servile e disponibile a tutto, “agli ordini”, come un autista cui si indica l’itinerario o, per rimanere nei paraggi della fotografia, come un operatore alla camera cinematografica, obbediente al regista e al direttore della fotografia, quindi “al servizio di” entrambe, ma nel nostro caso soprattutto dell’architetto, che al solito era – e lo è probabilmente tuttora – il committente che paga (scusate la volgarità). Il fotografo, in Italia specialmente, è stato considerato a lungo un personaggio di classe secondaria, un “artigiano specializzato”, un “tecnico” e così via, ma il Fotografo è invece innanzitutto un Intellettuale, quando lo è per intelligenza e cultura – con buona pace del bravo venditore di pellicola, apparecchi e accessori, che magari scatta anche la fotografia automatica d’identità ed è presente in matrimoni e inaugurazioni, meglio se con un monumentale flash; anche lui si chiama Fotografo, ma vorremmo suggerire altre parole che so, fotografista o fotografatore... –, perché la fotografia è invece una “pratica” intellettuale, e non richiede conoscenze scientifiche e fatiche fisiche, come suggeriscono manuali e trattatelli ad uso dell’industria merceologica. Basta guardare nel rettangolo del mirino, decidere il Punto di vista e il Momento, e via... una leggera pressione su un pulsante e l’immagine è fatta: sfuocata, storta, sovra o sottoesposta? Basta scegliere quella coerente con l’Idea del soggetto; in bene e in male. Non ci sono regole di perfezione, perché ogni immagine progettata deve corrispondere a un’Idea (coerentemente anche nella fotografia scientifica), un’idea significativa o banale come quella del simil-fotografo-turista, che si emoziona a Venezia per un colombaccio ai suoi piedi; la Fotografia è come la parola, il disegno, la musica, e soprattutto per la fotografia la tecnica è in effetti irrilevante, rispetto al pensiero. László Moholy-Nagy nel 1925 aveva affrontato e capito profondamente la problematica linguistica della fotografia, la cui visione, ha scritto, può essere «astratta, esatta, rapida, lenta, intensificata, penetrante, simultanea, distorta»; ecco la fotografia. Anche distorta, e in questa parola c’è ogni altra possibilità d’espressione concettuale “distorta” nella geometria, nel chiaroscuro, nel colore, non esiste alcuna regola, se non nei manuali per principianti. Ogni fotografia, nella sua distorsione (anche la correzione parallattica è una distorsione esprime un giudizio e dobbiamo quindi essere grati al fotografo, quando si sottrae a ricatto del luogo comune, che lo vorrebbe banalmente servile e lacchè.

«L’arte non è il soggetto», conclude una poesia di Bruno Munari, che così inizia, sugge stivamente:

Che cosa può raffigurare un’opera d’arte?
un paesaggio

un viso

cavalli

zebre
forse no
microbi
mai più.
la scelta del soggetto è importante?
lo sposalizio della vergine di Raffaello, arte
lo sposalizio della vergine di X.Y., non arte.

La fotografia, arte o non arte, è l’immagine del soggetto e ciò che conta è la sua qualità, perché soltanto questa qualità può suscitare un’emozione relativa al soggetto, e quindi può avviare a comprenderne la bellezza, al di là di ogni idea di “riproduzione”, di documento neutrale, se ancora c’è qualcuno che crede possa esserlo la fotografia.
Trovai Carlo Scarpa – che ho seguito con affetto e ammirazione infinita, come professore e persino come “collega” al Corso superiore di Disegno industriale di Venezia, dove insegnai al suo fianco Fotografia – un “cliente” invece difficile per la mia natura e professione, allora di fotografo un poco isterico. Egli amava una fotografia diversa da quella che avrei potuto dargli io, ma anche Paolo Monti non era di sua completa soddisfazione; troppo contrastate e buie le fotografie, low appunto nello stile personale di Monti, e naturalmente anche le mie, eseguite rigorosamente in un programma a luce ambiente – quindi senza rischiarare alcunché, neppure in controluce –, mentre il Maestro voleva “leggere” anche la vena del legno e le viti di un telaio di finestra, che si stagliava invece silhouettando sullo sfondo, con il suo disegno tassativo, come il pionieristico photogenic drawing di Talbot, il più antico negativo della storia, che fissa il disegno di un bow-window in controluce. D’altronde, direbbe Stoichita, «L’ombra non rende il “particolare”, ma “l’insieme”». Il fotografo ideale di Carlo Scarpa era dunque Ferruccio Leiss, con la morbida texture delle sue fotografie, persino d’atmosfera pittorialista, romantica; Leiss fu un fotografo magistrale, non soltanto a Venezia, dagli anni trenta, sempre teso a registrare con dolcezza paesaggi e oggetti (anche molti vetri di Scarpa) d’indimenticabile poesia, come nel compendio iconico del volume Immagine di Venezia, sostenuto dai memorabili testi di Cocteau e De Pisis.

In quel fotolibro, Leiss offrì un volto nuovo alla città, ben lontano dalla statica e dolciastra iconografia tradizionale, in seguito interrotta soprattutto da Fulvio Roiter o da Gianni Berengo Gardin. Quel libro di Leiss piacque molto a Scarpa, anche per la vellutata qualità della stampa in rotocalco opaco, da accarezzare, come a lui piaceva fare degli oggetti e delle superfici, Scarpa e Mario De Luigi a quel tempo seguivano e sfogliavano anche le riviste di fotografia, e tra queste la francese «Verve», dalla grafica raffinata, impreziosita dalla qualità della stampa, ancora rara da noi. Ma le fotografie di Leiss piacevano a Scarpa, paradossalmente, perché non erano ipernitide, come molta fotografia professionale standard pretendeva, e non erano “viscide” per lucentezza, e a volte potevano persino alludere a un disegno a carboncino o pastello. La fotografia troppo fotografica non piaceva a Scarpa; «che bea, par un quadro...», mi disse una volta, davanti a una fotografia fin troppo sgranata, che sembrava una litografia. Carlo Scarpa fu attratto particolarmente, nel periodo del corso di Design, dalla problematica suscitata da Gyorgy Kepes, che tenne anche una lezione al nostro Istituto, proprio mentre stava per pubblicare l’edizione italiana del magistrale saggio Il linguaggio della visione, scritto però nel 1944, dove la fotografia occupa uno spazio rilevante, che incuriosì allora – sia pure tardivamente – molti studiosi nostrani, ancora diffidenti verso questo mezzo espressivo, considerato invece di rilevanza soltanto artigianale. Bastava però una frase di Kepes, per capire il potere della fotografia e la necessità di una cultura fotografica: «percepire un’immagine visuale implica la partecipazione dell’ossere vatore ad un processo di organizzazione, poiché l’esperienza di un’immagine è un atto creativo di integrazione». Il fotografo infatti “organizza” lo spazio, sceglie il punto di vista, mette ordine tra gli elementi e la luce, aspetti che avrebbe suggerito anche l’Algarotti, un paio di secoli prima, pensando alla scena teatrale; ma potremmo adattare il concetto anche a un’architettura, dall’Algarotti concepita in una «cornice di luce», luce distribuita «artificiosamente mandandola come in massa sopra alcune parti della scena e quasi privandone alcune altre». Le architetture di Carlo Scarpa vivono come poche altre “della luce”, avviata nello spazio per definirne il significato e costruire una natura artificiale densa di sorprese luminose, creando strutture che si rincorrono e che sembrano sfuggire dal chiaroscuro, per essere soltanto luce e colore. La fotografia è “scrittura della luce”, anche nella definizione quasi banale in un saggio di Paolo Monti, che però suggeriva questa scrittura, «per il futuro, e forse la più ricca memoria visiva del mondo». Monti, come Ugo Mulas tra gli altri, ha definito con grande energia l’opera di Carlo Scarpa, “a modo suo” però, da intellettuale, sottraendosi al servilismo professionale, così come oggi appare il lavoro di Guido Guidi, che non ha subito regìe esterne, se non l’imposizione dell’occhio e dell’intelligenza, spesso anche della poesia, come può esserlo il seguire lentamente l’evolversi spaziale di un fascio di luce, che vivifica l’architettura, suggerendone il significato, indirizzando alla lettura, che avviene mediante la fotografia.

Non la fotografia come mero “documento” – così la si vorrebbe castigare –, ma la Fotografia come pensiero, come concetto, come filosofia dello spazio.

Credo che Carlo Scarpa sarebbe stato reso felice da queste immagini, dolci come quelle di Ferruccio Leiss, o di Luigi Ghirri, ma ancora più emozionanti nella diacronia del racconto, che offre un itinerario nel tempo della sequenza delle immagini, e invita a una riflessione, persino a una preghiera. E si tratta di fotografie “specifiche”, nitide e lucide, non certo in odore di pittorialismo, un’estetica che ammiccava alla grafica e comunque alla manualità del disegno. La “Fotografia è la Fotografia, e basta”, forse serve ripeterlo per l’ennesima volta; è la fotografia che definisce i soggetti del mondo, che senza di essa sembrano non esistere.

D’altronde non è un concetto nuovo, se l’architetto Gio Ponti, nel 1932, in un Discorso sull’arte fotografica, affermava appassionatamente che «l’aberrazione fotografica è per molte cose la nostra sola realtà: è per molte cose la nostra conoscenza, ed è quindi il nostro giudizio. Essa è gran parte del nostro apprendere visivo» .

Anche il lifting che i fotografi praticano sul reale, nell’iter del lavoro, dalla ripresa (illuminazione, punto di vista, itinerario ecc.) alla stampa (oggi senza limiti d’intervento, con il digitale), fa parte del potere che questi hanno sul soggetto dell’immagine, e infine anche sull’architetto, nel nostro caso, tradendolo anche, in nome dell’editoria, della pubblicità, dell’ideologia. Il fotografo, anche il più pedissequo e lusinghiero ritrattista d’architettura, è comunque l’autore dell’immagine e a lui infine il lettore inconsapevolmente si riferisce, leggendo i segni tracciati nel rettangolo fotografico, alla ricerca – Scarpa docet – anche della venatura di quel legno, del disegno di quella vite, della granulosità o della lucentezza di quell’intonaco. Ma la fotografia è immagine per se stessa, in bene o in male, come lo sono le acqueforti di Marcantonio Raimondi nel confronto con gli affreschi di Raffaello; ogni opera, d’origine o di trascrizione, ha una sua qualità ed è soltanto questa qualità specifica, che può ricondurci semanticamente all’origine, quindi culturalmente alla storia. In questo volume sono messi a confronto alcuni tra i più significativi fotografi del nostro tempo, impegnati tutti “a modo loro” a descrivere l’architettura di Carlo Scarpa, e “a modo loro” ci offrono una vivace e dialettica testimonianza della loro cultura visiva, della loro riflessione su quegli spazi di luce ritmata, offrendoci una suggestiva testimonianza dell’opera di un architetto che forse oggi più di ieri amerebbe la fotografia con un forte, rassicurante abbraccio.

^