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Carlo Scarpa nella fotografia
racconti di architetture (1950-2004)
Vicenza, palazzo Barbarano. 24 settembre 2004 - 9 gennaio 2005

 

Vite parallele. Intervista a Fulvio Roiter
di Maddalena Scimemi

MS: In quale occasione sentì nominare Carlo Scarpa per la prima volta?

FR: Credo che fu in occasione della XXV Biennale di Venezia, nel 1950, quando si discusse pubblicamente del Padiglione del Libro d’Arte realizzato da Scarpa per la Galleria del Cavallino. Scarpa era un architetto ben noto a Venezia e tuttavia fu quella la prima volta in cui io sentii il suo nome. Il Padiglione aveva fatto molto scalpore sui giornali, perché era una costruzione plasticamente avveniristica, una libreria prefabbricata perfetta per occasioni come le mostre temporanee delle biennali veneziane. Credo fossero gli anni in cui Scarpa si cominciava a far conoscere anche a livello internazionale, ma parte dell’interesse suscitato da Scarpa nell’opinione pubblica locale era dovuto anche al fatto che non aveva una laurea in architettura. La gente lo vedeva con occhi strani, diffidenti. Questa storia della laurea per me è sempre stata disgustosa: può benissimo non possederla chi è nato con l’architettura nel DNA, con l’architettura nel sangue, come Scarpa. Non c’è uno studio obbligato: so per certo che quello che Scarpa sapeva - e aveva una cultura e una competenza eccezionali - l’aveva appreso individualmente.

MS: Lei eseguì alcune fotografie del Padiglione del Libro partecipando al concorso “Un quadro per una foto”, indetto nell’agosto del 1950 da Carlo Cardazzo, il committente del Padiglione. Carlo Scarpa era tra i componenti della commissione giudicatrice, che premiò Ferruzzi. Lei era già un fotografo professionista all’epoca?

FR: No, avevo 24 anni e la mia formazione era quella di perito chimico, però la fotografia me la portavo dietro da quando ero un ragazzo… Mi domando, pensando alla carriera, se io non sia stato geneticamente concepito per fare il fotografo, perché non ho mai avuto dubbi sulla mia professione ed è questa la mia grande fortuna. La prima volta in cui impugnai la macchina fotografica avevo quindici o sedici anni, fu durante un ritiro di quelli che facevamo con il parroco dell’Azione Cattolica, insieme alle altre parrocchie della diocesi di Treviso. Ci recammo a Possagno e fotografai il maestro che ci accompagnava e tutto quello che vedevo con un’AGFA Isolette, prestatami dal cappellano del mio paese.

MS: quali erano i suoi riferimenti?

FR: Mi affascinavano le fotografie delle riviste: ricordo “Signal”, una rivista tedesca che arrivava da noi in edizione italiana durante la guerra, con dei magnifici reportages. Seguivo anche “Le vie d’Italia” e “Le vie del mondo”, curate da letterati e da scienziati che abbinavano le loro fotografie ai testi. Mi affascinava sin da allora questo doppio mezzo di comunicazione, fatto di parole e di immagini. La prima volta che pubblicarono una mia fotografia fu nel 1948, nella pagina speciale dedicata ai lettori della rivista “Ferrania” C’erano solo le mie iniziali sulla fotografia, ma ricordo che Alfredo Ornano, il direttore, la segnalò ai lettori per la spiccata sensibilità artistica dell’inquadratura. A quell’epoca stampavo in camera da letto, nella casa di mio padre a Meolo, dove avevo un ingranditore prestatomi da un amico veneziano. Fotografavo matrimoni, funerali, qualsiasi cosa: in Italia nel dopoguerra non c’erano grandi possibilità di mercificare la fotografia, non era certo come oggi. Io guardavo le riviste di architettura, che mi procurava il mio padre putativo, il fotografo Paolo Monti.

MS: Come conobbe Paolo Monti?

FR: Il mio rapporto con Monti cominciò proprio nel 1948, in un modo rocambolesco e incredibile. In campagna, dove abitavo io, per le necessità fisiologiche di solito si andava nei campi all’aperto. Mio padre, invece, ci aveva costruito una turca accanto alla stalla, per guadagnare un muro. Quando arrivava il Gazzettino - e non è che succedesse tutti i giorni – il giornale poteva restare lì a lungo, perché al posto della carta igienica era normale usare dei fogli di giornale. Un giorno andai in questo metro quadrato e trovai un residuo di Gazzettino – in cui uno finisce per leggere anche le cose più assurde, gli annunci, le pubblicità e così via. Ad un certo momento lessi un piccolo trafiletto, che cominciava con “si è costituito il circolo fotografico La Gondola a Venezia” e seguiva con alcune informazioni, con un numero di telefono e con l’indirizzo. Scoprii che al Palazzo delle Prigioni a Venezia, accanto a Palazzo Ducale, tutti i giovedì alle nove di sera il Circolo organizzava degli incontri sulla fotografia aperti al pubblico. A mio padre – che non mi negava nulla, ma mi faceva pesare tutto - chiesi 500 lire, perché avrei dovuto dormire fuori e fu così che il primo giovedì di quella settimana partii per Venezia. Arrivai alla sede con un’ora e mezza di anticipo e mi imbattei nel segretario, che si chiamava Gino Bolognini. Era il capo del personale delle Assicurazioni Generali, con l’hobby della fotografia e un fantastico talento nello stampare. Mi presentai a lui e come udì il mio nome mi predisse: ”ma con un cognome simile, lei è destinato al successo!”. Poco dopo arrivò Monti, piccolo di statura, magro e nervoso, portando con sé una scatola con un centinaio di fotografie di formato 18x24 cm, che aveva realizzato negli ultimi mesi esplorando la laguna. Io mi sentivo forte della mia capacità critica, anche perché avevo a Meolo un amico filosofo molto religioso, che aveva studiato, aveva fatto l’università e con il quale avevo passato lunghe ore a discutere di estetica, del senso del bello assoluto e in natura. Le fotografie di Monti passavano di mano in mano sul tavolo del Circolo e i cinque o sei presenti le guardavano e commentavano. Quando fu il mio turno, senza parlare, io presi in mano solo tre o quattro stampe, le uniche che mi interessavano, pur essendo ingrandimenti di dimensioni che io non avevo mai visto e di conseguenza tecnicamente affascinanti. Figuriamoci la faccia di Monti! Un ragazzetto che si permetteva di giudicare le sue fotografie! Fu un esordio negativo che tuttavia stimolò la conoscenza reciproca, portandomi in seguito ad instaurare una delle amicizie più proficue che ho mai avuto. Monti, rispetto agli altri della Gondola, aveva una cultura straordinaria. Andavamo per la laguna, a Pellestrina, e passavamo intere giornate a fotografare insieme. Dormivo a casa sua e non aveva figli: insomma mi aveva adottato ed io ero una spugna.

MS: E Ferruccio Leiss?

FR: Leiss non voleva saperne di iscriversi alla Gondola: veniva raramente e lo chiamavano il barbone della fotografia. Lui era già più anziano degli altri iscritti e l’unico giovane che non respingeva ero io, al punto che l’editore di CAMERA, una rivista svizzera, mi chiese un reportage su Leiss, perché sapeva che potevo avvicinarlo e nel 1958 uscì un numero della rivista intitolato “Da Feruccio Leiss a Fulvio Roiter”, che comincia con le fotografie di Leiss tra cui il ritratto di Frank Lloyd Wright e finisce con le mie fotografie sul Brasile, eseguite durante il mio primo viaggio nel 1957.

MS: Fu Monti a parlarle di Scarpa?

FR: nel 1959 Scarpa aveva cominciato il restauro della Querini Stampalia. Monti era affascinato dall’architettura ed essendo io in stretto contatto con lui, capitava che parlassimo di Scarpa, del quale lui era entusiasta. Scherzavamo insieme sul fatto che Scarpa sapesse fare delle cose tanto belle pur mettendo fisicamente paura. Era una specie di Belzebù, magro e lungo, con quella barba stretta sulle basette, ma in sua presenza si avvertiva che aveva una testa straordinaria… anche se la sua presenza fisica ti teneva a distanza, non appena apriva bocca risultava estremamente piacevole, molto cordiale, aveva un volto denso di espressività. Se solo trovassi le fotografie che ho fatto a lui e a Gasser…

MS: Di Gasser, se non le dispiace, parleremo più tardi. Monti le ha mai detto che cosa vedeva nei lavori di Scarpa?

FR: il fatto è che a Monti non interessava solo Scarpa: egli era attratto anche dalla grande architettura del Cinquecento del Seicento. L’interesse per Scarpa era determinato anche dal fatto che riusciva a conservare magistralmente l’architettura del passato.. penso al Museo di Castelvecchio ma anche all’intervento precedente realizzato alla Querini Stampalia. Scarpa era un eccellente conoscitore di materiali, sapeva utilizzare anche quelli più poveri.. lavorava con la storia e con la materia.

MS: Ha mai lavorato per o con Scarpa?

FR: A partire dagli anni 52-53, dopo il mio viaggio in Sicilia, venni – in un certo senso – catapultato nel successo, fui letteralmente lanciato nella fotografia europea. Non ricordo come arrivai a conoscere Scarpa di persona, ma so che feci alcune fotografie al Castelvecchio e un servizio alla Querini Stampalia. Fotografai il Museo di Castelvecchio perché accompagnavo Paolo Monti, che aveva ricevuto da Magagnato l’incarico di fotografare il restauro delle sale e il nuovo allestimento. Ci fu, in effetti, un momento in cui Scarpa in persona mi chiese di fotografare i suoi lavori, ma non ebbe seguito per ragioni economiche. Allora - avevo la Rolleiflex 6x6 e a partire dal ‘54 usavo anche la Linhof – ero solito stampare da me le fotografie: non avrei mai potuto chiedere ad un altro di fare i miei bianchi e neri! Avevo una quantità di spese in pellicole e in materiali per stampare, perciò mi era necessario almeno recuperare quello che spendevo. Ma quando chiesi a Scarpa quanti soldi mi avrebbe dato, si mise a ridere e mi disse “No no no, io non pago niente!” Forse si sentiva già un architetto famoso e pretendeva che a me bastasse l’onore di fotografare i suoi lavori…

MS: Parliamo della rivista svizzera DU e di chi le commissionò le fotografie sulla Gipsoteca Canoviana di Possagno e la Tomba Brion di San Vito d’Altivole.

FR: il mio rapporto con la rivista DU era di collaborazione. Io stesso proponevo i reportages al direttore, che all’epoca era Manuel Gasser. Nel caso della Gipsoteca, il vero soggetto delle fotografie era Antonio Canova, o meglio la sua idea di bellezza classica letta attraverso le mie fotografie dei gessi allestiti da Scarpa. Invece per quanto riguarda la pubblicazione della Tomba Brion, si trattava di un’alternativa che posi a Gasser essendo fallito il mio tentativo di promuovere l’opera dello scultore Toni Benetton. Quando gli suggerii di pubblicare una nuova opera di Carlo Scarpa - che Gasser conosceva già come autore dell’ampliamento della Gipsoteca di Possagno - portai con me delle fotografie della Tomba Brion, con le quali riuscii a convincerlo: furono quelle, poi, ad essere utilizzate per la pubblicazione. Gasser decise di venire personalmente a vedere la Tomba Brion ed io feci in modo che fosse presente anche Scarpa. Fu così che da Venezia partimmo in taxi io, Gasser e Scarpa. Il programma era: viaggio, visita e pranzo insieme. Ero felice di averli messi in contatto, erano due intelligenze straordinarie a confronto. Gasser era sbalordito dal colore scuro del soffitto della Cappella e Scarpa gli spiegò che l’aveva ottenuto usando polvere ferrosa nera. Ma tutti i colori erano vivi e abbaglianti: era primavera e al verde pieno dell’erba faceva da contrappunto la linea gialla del mosaico sulla profilo della parete d’ingresso. Anche il cemento, appena fatto, era splendente: si vedeva con una nitidezza speciale il materiale dell’architettura, appena completata.

MS: Ricorda se Scarpa le diede mai indicazioni su come o cosa fotografare?

FR: No, assolutamente. Non avrei mai tollerato di essere accompagnato o guidato da Scarpa durante le riprese. Il lavoro del fotografo deve essere condizionato solo dalla luce: se piove, o non c’è il sole, si deve tornare. Quando sono dinnanzi all’opera, mi sforzo per avere la massima concentrazione e per capire l’ora giusta, l’inclinazione dei raggi del sole che a mio parere risulta più adatta per fotografare. Quando arrivo in un posto, lo ispeziono accuratamente e nella mia mente diviene subito chiara la luce ideale. Fotografare architettura non mi è mai interessato in sé. Io prediligo gli esterni, oppure i giochi di luce e di colore..

MS: ha mai usato luce artificiale?

FR: Io ho sempre disdegnato il flash. Monti mi aveva convinto, alla fine, a comprare una lampada che tuttora adopero con molta parsimonia. Ecco: quando feci il negozio Olivetti sì, l’adoperai e mi accorsi che avrei dovuto usarla prima e molto più spesso. Mettere un filtro azzurro ad una lampada artificiale equivale ad avere luce solare ed è stupendo poter illuminare gradualmente un luogo in ombra. Se qui uso - ad esempio - un grandangolare, la finestra è in piena luce e quell’angolo della biblioteca rimane oscuro, ma se io metto una lampada riesco ad avere un equilibrio tra interno ed esterno che va benissimo.

MS: È all’equilibrio che mirava quando ha fotografato le opere di Scarpa? Cosa significa un’architettura con la luce in equilibrio? Pensa che Scarpa avrebbe ‘approvato’ questa sua lettura dello spazio?

FR: È molto raro che un fotografo – a meno che non sia coinvolto dall’architettura in modo speciale – riesca a proporre delle immagini di un’opera architettonica in modo da soddisfare l’autore. Sapevo che Scarpa mi apprezzava, ma non posso rispondere per lui. Una riscontro molto positivo l’ho ricevuto da Gino Valle, che mi commissionò le fotografie per chiedere la docenza.

MS: Cosa fotograferebbe oggi di Scarpa?

FR: Col senno di poi mi sarebbe piaciuto fare la casa Zentner, che un giorno rifiutai di andare a vedere, nonostante me l’avesse chiesto Scarpa in persona. Non ricordo l’anno preciso ma mi trovavo a Zurigo per lavoro. Ero appena entrato nel ristorante di Parade Platz della Moevenpick - una famosa catena di tavole calde – ed essendo solo mi ero seduto in un posto libero tra due persone al banco, dove si poteva ordinare e mangiare comodamente. Il cameriere mi porse il menù, al quale non feci nessun caso perché io mangio con gli occhi. Guardai alla mia sinistra e non vidi nulla che mi facesse gola, mi girai a destra e – caspita – “voglio la stessa cosa!” dissi. Non feci in tempo a finire la frase, che si girò Carletto Scarpa. Ci salutammo sbalorditi e così, nell’entusiasmo di quell’incontro inaspettato, continuammo il pranzo insieme conversando fino al caffè. “Dato che sei a Zurigo – ad un certo punto mi disse – “perché non vieni a vedere la casa Zentner?” Risposi: “Ma cosa vuoi, sono qui per l’Atlantis”, e rifiutai il suo invito perché sapevo che avrei dovuto lavorare gratis. E fu quella l’ultima volta in cui lo vidi.

Le opere di Carlo Scarpa fotografate sono:

1950 Padiglione del Libro d’arte ai Giardini della Biennale, Venezia
1964 Museo di Castelvecchio, Verona
1967 Gipsoteca Canoviana, Possagno
1974 Tomba Brion, San Vito d’Altivole
1980 Museo di Castelvecchio, Verona
1986 Tomba Brion, San Vito d’Altivole
1997 Negozio Olivetti, Venezia
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